Ogni giorno è l'ultimo.
(Dal primo libro del Pianeta vergine, cap. 6)
Ci siamo assopiti, forse nel dormiveglia sognavamo, gli occhi aperti nel buio, il mouse era di fronte al video del pc che rifletteva il costato di Gesù Cristo sofferente e con una cerbottana invisibile gli lanciava dardi acuminati, il costato sanguinante grondava dolore che illuminava la pagina dove stavamo scrivendo.
“Il precipizio era lì a portata di mano…“ la frase ci ronzava nei pensieri e ci piaceva, intorno il filo si ricamava in probabilità eccitanti, almeno per l’Arte, vedevamo tante storie che si potevano originare dall’idea, tutto stava a scegliere quella giusta.
Riaprimmo gli occhi consapevoli del rischio, noi potevamo essere precipitati nel fondo del web ed il manicomio era conseguente, questo non poteva non essere previsto e la cosa ci rassicurava ma occorreva annullarsi in un unico attimo agente fuori dal tempo, la trascendenza valicava se stessa, il rapporto si invertiva, a trascendere era tutto il resto.
Il mouse è sul tavolo inerte come un oggetto qualsiasi e la pagina di dolore spenta, ci rolliamo una canna e la fumiamo scartabellando gli appunti dello scrittore scomparso.
Note con punti interrogativi sulla fontana, scrive di un’acqua solida ed una liquida, proteiforme, si chiede quanti sono i getti, se vanno presi in considerazione tutti o solo uno. Riflessioni sul mito di Giuseppe d’Arimatea: “Dopo la distruzione della fontana un getto viene portato e nascosto in un posto sicuro, la mappa è tracciata nel linguaggio di tutti i popoli, è associato alla spada nella roccia o è solo una variante tra tante per confondere?”
Un appunto: “probabilità fontana smontata, suoni di richiamo, riflessi condizionati, cercare nella merda e nel piscio, non capire…”
Dopo un giorno passato a mescolare merda e piscio è troppo!
Chiudiamo il libro e andiamo a fare quattro passi.
La sera è buia e fredda, l’aria fumosa raschia in gola, i lampioni accesi fan luce sui reticolati e gli scavi dei cantieri, case sparse, sentieri più o meno visibili, insegne di bar ancora aperti, dentro fumo e vocio, impossibile distinguere, grida, risse, bottiglie rotte, allunghiamo il tracciato del pensiero ed arriviamo alla piazzetta del muro.
L’albero secco, la cabina del telefono, le panchine scrostate…stamattina quando siamo passati con lo zoppo il muro non c’era ed adesso eccolo di nuovo lì, un muro inesistente fatto di nulla eppure indistruttibile, almeno all’apparenza.
Ci avviciniamo in silenzio, ancora quella vocina canta: “lallaralallarala…lalala… laralala…lala…” quel suono risveglia un ricordo antico, una pagina di dolore che credevamo scomparsa per sempre, un richiamo calamitante al precipizio, l’anima gemella al di là di un muro d’odio, non servono domande, Piramo e Tisbe, un maremoto di emozioni mancate sepolte sotto la merda della necessità…troviamo la fessurina nel muro e proviamo a chiamare, battiamo dei colpi, dei calci…la voce tace immediatamente, accostiamo l’orecchio: in un silenzio ostile sentiamo catene cigolare, grugniti, colpi di frusta, odio e di nuovo silenzio.
Per stasera non canterà più. Sediamo su una panchina di fronte al muro e gli parliamo, la necessità, la più bella sul piatto e dover rinunciare per vergogna e pregiudizio, meglio con un altro che con noi, quel che credevamo, amara decisione ma che fare?
Un futuro da cretini con la donna dei sogni, soli contro tutti, senza un soldo, inseguendo cosa? Adesso, col senno di poi, che amore sarebbe stato? E’ andata così ed ora quel muro, amo ed odi, tornare indietro rifaremmo lo stesso, quante volte l’abbiamo fatto?
Meglio con un altro che con il figlio di un postino, genio, talento, creatività per cosa? Tutto il nostro amore, se fosse qui adesso le diremmo…
“Succhiami il cazzo puttana!”