Ogni giorno è l'ultimo.
A quei tempi vivevo in un cimitero chiuso dentro una gabbia appesa ad un albero rinsecchito. Come inizio è poco allegro ma bisogna calcolare che la gabbia aveva la porta aperta ed il cimitero non era un cimitero qualsiasi ma ogni tomba racchiudeva un altro cimitero, un cimitero di cimiteri e in giro si vedevano solo nere cornacchie che ogni tanto venivano a farmi visita appollaiandosi sui rami e facevamo lunghe chiacchierate su questo e su quello.
Dal confronto con la scala cromatica si vede che l’idea, il do uguale a zero che dà inizio all’ottava coincide con il si diesis, cioè l’oggetto realizzato dell’idea dell’ottava precedente, come dire rotto il giocattolo se ne fa un altro migliorato oppure come nel ripristino di un file sempre lo stesso ed in questo caso si ripete l’idea precedente.
Per vivere facevo l’archeologo del linguaggio, mi calavo con la gabbia dentro una tomba e andavo a rovistare tra le parole sepolte nel cimitero che conteneva e con quelle imbastivo delle storie senza curami se piacessero o meno.
Su questi presupposti mi ritrovai miliaia di anni indietro sempre allo stesso posto, evidentemente stavo lavorando su un’idea che si ripeteva, nella figura stavo in un letto sontuoso tra cuscini vaporosi e soffici abbracciato ad una bella africana tettuta, la pelle nera lucida profumata d’oli preziosi era calda e frizzante, rifletteva le luci soffuse e tremolanti di un grande candeliere brillando come la luna.
Aveva delle tette, non so se esistono le parole per poterle descrivere esattamente, non erano ne grandi ne piccole, dure e pronunciate, le curve perfette con due capezzoli enormi che sembravano fatti apposta per essere succhiati.
Li stavo leccando delicatamente, prima uno poi l’altro ed intanto sussurravo loro paroline incantate quando cominciarono a sprizzare latte, un latte squisito più buono della migliore bevanda che avessi mai assaggiato, inebriante ed effervescente, pastoso quanto basta, latte bianco, leccavo le gocce che scivolavano sulla pelle nera, le inseguivo, certe rotolavano all’ombelico, altre le scendevano tra le gambe giù tra le labbra della vagina e allora le infilavo la lingua, le labbra si aprivano e facevano uscire un torrente spumeggiante come birra che bevevo a gocce assaporando il contrasto che lasciavano al palato mescolate al latte, dolce e salato, da resuscitare i morti.
Lei si chiamava L’Atte ed era la mia prima colazione, questo lo capì dopo perchè intanto l’ascensore continuava a scendere, ero calato in un altro cimitero, sempre nella stessa gabbia, in questa si sentiva un intenso odore di merda che però non infastidiva, il letto sembrava una lingua ed era soffice e caldo ricoperto di piume variopinte come era anche il mio corpo e quello di lei, la tenevo abbracciata ed avevo un suo capezzolo in bocca, lo morsi e lo staccai con una naturalezza come se non avessi mai fatto altro poi iniziai a succhiare il sangue caldo che colava copioso…un flash tanto per intendersi perché l’ascensore aveva ripreso a salire e questa volta mi ritrovai sempre nella gabbia in un altro cimitero, qui eravamo nuovamente tra cuscini vaporosi e ce n’era un’altra che mentre bevevo il latte alla nera mi succhiava il cazzo con un arte che non si può descrivere a parole.
Eravamo in pausa e stavamo parlando, mi vidi dire: “Gli affari vanno male, dobbiamo trovare il modo di far entrare qualche soldo.” In poche parole proposi di aprire un grande albergo con bordello ristorante per raffinati buongustai, gli artisti migliori, quelli che potevano permettersi di pagare le cifre più alte e loro avrebbero fornito a questi gli stessi servizi che facevano a me. Bisogna dire che dopo migliaia di anni chiusi in quella gabbia cominciavamo a stufarci di quel gioco e quelle anche se all’inizio erano riluttanti accettarono. Ci mettemmo d’accordo su come spartire i profitti e tirai fuori dalle tombe tutte quelle sepolte che potevano aiutarle nel lavoro e quindi iniziammo a stendere il contratto, loro mi avrebbero dato la metà ed in cambio, quando sarebbero rimaste senza latte sarebbero tornate da me con i soldi e glielo avrei fatto tornare con le solite paroline incantate.
Lo zufolo dell’arte ha suonato la sua musica, la figura è interessante, la sua interpretazione chissà?…