Ogni giorno è l'ultimo.
La platea, i muri stanno a guardare, s’accendono le luci della ribalta, accecante, non si vede, si parla al buio. La solitudine dell’attore sul palcoscenico, dall’oscurità flebili richiami, colpi di tosse, ringhi accennati, tigri feroci e pecore belanti, non si sa…
È passato qualche giorno, che sarà successo a Dùcento? Probabilità, a quest’ora i parassiti dovrebbero averlo mangiato vivo ed invece è ancora lì e nulla è cambiato come se il tempo si fosse fermato in attesa che l’autore riprendesse a scrivere, a raccontare.
Il cantastorie appare sulla ribalta interpretato dall’attore mentre l’autore scrive, nel buco i parassiti sono in attesa del via per riprendere a rodere, nugoli di mosche si sono affaccendate a deporre uova in ogni buco che trovavano aperto ed anche le uova aspettano il segnale per aprirsi, feti di vermi affamati fremono all’interno. Nella foresta si potesse guardare attraverso l’oscurità si vedrebbero le foglie ingiallite sospese per aria sostenute da un vento immobile, raggi di luna senza luce sbirciare fissi tra i rami contorti , la terra, i pianeti, il sole, le stelle tutti fermi, si apre la scatola di un orologio, nessun tic tac scorre nell’aria vuota della scena, ci sono ma è come se non ci fossero, un fantasma, sulla scala stregata appare la figura di un grosso cazzone, termine ambiguo dai molti significati, nell’accezione attuale lo si potrebbe definire un ricordo obliato dal tempo.
Stoccazzo d’autore, proprio questo il punto, si guarda la storia scritta sulla pagina e nessuno si preoccupa dell’autore, chi è? cosa fa? Da dove provengono le parole che scrive?
Nell’immobilità del tempo Dùcento dice, cioè siamo noi, queste parole che scorrono sul foglio a parlare: “Quando ero in carcere ho sentito l’odorino di una che ce l’aveva particolarmente appetitosa, l’odore formava un filo che dalla sua figa toccava il mio naso, non mi potevo muovere allora ho visto il naso allungarsi seguendo il filo e si è andato a ficcare in quella fogna e poi si è messo a stantuffare alla grande…”
Dùcento tace, l’autore guarda le probabilità, la scala, il naso cazzo, la figura del ficcanaso, il cazzo bambino, le letture, le favole, i fumetti, il personaggio che si monta, ficcanaso è uno che si interessa degli affari altrui, un investigatore, uno sbirro…
Nella fossa Dùcento prende l’aspetto di Topolino, il naso col pon pon nero sulla punta, cappello da indossare, le prime storie raccontate, Walt Disney, l’America, s’allunga il naso sull’oceano in vista delle coste, la baia di New York… di botto la scena si mette in movimento ed i parassiti riprendono a rodere, i vermi escono dalle uova affamatissimi.
L’autore entra in scena, cioè siamo sempre noi parole, lui è dall’altra parte dello schermo che scrive quindi un alter ego letterale, un altro personaggio, figura complessa, si vede il gatto con gli stivali delle sette leghe, si mette a correre come un pazzo sul quadrante dell’orologio indietro nel tempo ed arriva a Topolinia, fiuta odore di ratto e giunge al segno, Topolino con l’intero naso ficcato nella figa di Minnie, sia bene inteso sono solo parole, Minnie squittisce goduta con la farfalla in testa che batte le ali e serra le gambe sempre più strette, Topolino sta cercando di liberarsi, strattona e grugnisce ma per quanto tiri nulla da fare.
Il gatto gira intorno alla scena, la figura immobile ricamata dai raggi di luna che si riflettono nelle acque della baia riflettendola su un tabellone gigantesco che dall’Empire si irradia su tutto il pianeta, l’apparenza di una cazzata troppo semplice per sembrare vera, l’abito cala e si scopre la nudità, l’essenza della nudità, un amore platonico, i parassiti continuano a divorare e la figura diventa proteiforme, un serpente che ingoia il topo, Minnie si alza ruttando e Topolino le pende dalle gambe come un grosso cazzone floscio, l’orologio si rimette in movimento e torna al di là dallo schermo dove sta scrivendo, il gatto ha il fiatone da tanto ha corso, naturalmente il serpente ermafrodita è nel suo stomaco, l’ha subito ingoiato con un solo boccone ed adesso è in elaborazione, il vento suona le corde dei raggi di luna in una soave melodia frusciante di succhi gastrici mentre Dùcento dice: “Lo vedi? Non riuscirai a distruggermi, i parassiti hanno da rodere finchè vogliono, posso prendere la forma che voglio, essere qualsiasi cosa, sono immortale!”
L’autore naturalmente non dà alcun peso alle parole che ha scritto, il gatto sornione s’accuccia al tepore del fuoco per digerire, la scena torna immobile, la scala stregata si ritira, il vento, le foglie a mezz’aria, i raggi di luna, i parassiti, tutto fermo, nel silenzio il ronzare di una mosca fastidiosa che gira intorno al naso, solletico, uno starnuto, un pallone che scoppia, il vagito di un bambino appena nato, l’idea…