Ogni giorno è l'ultimo.
Introduzione.
A quei tempi, sono passati alcuni secoli ed il ricordo è sbiadito, nomi e date sulle lapidi grattati dal vento e dal gelo, comunque ero in Irlanda, era una notte buia che più buia non si poteva, non una stella, non un lumino, niente, proprio niente, ero su una carrozza in viaggio verso non ricordo più quale paese e per quale motivo, il postiglione a cassetta aveva fretta di arrivare e fischiava e faceva schioccare la frusta per far correre i cavalli, si sentiva il tututum tututum degli zoccoli che battevano sul sentiero quando improvvisamente si mise a nevicare e in breve tempo ne fece un metro e la carrozza rimase bloccata, faceva un freddo della malora e come se non bastasse arrivò un branco di lupi di quelli che c’erano una volta e senza far complimenti si mangiarono subito cavalli e postiglione poi, dopo aver fatto molti rutti soddisfatti, il capo dei lupi disse: “Per il momento siamo sazi e non ti mangiamo ma non andare lontano perché la fame potrebbe tornarci.” Detto questo si dileguò nel buio insieme agli altri.
Come si suol dire mi trovavo proprio in un bel guaio, fuori dal finestrino si sentiva il vento gemere mentre si divertiva a spruzzarmi la faccia di neve ghiacciata, fortunatamente non mi persi d’animo e ragionai: “Il telefono non l’hanno ancora inventato quindi non posso chiedere aiuto a nessuno, se resto qui i lupi potrebbero tornare e se mi sposto dove vado se non so dove mi trovo?…potevo scegliere e decisi tanto per cominciare di uscire dalla carrozza.
Nevicava meno, il buio era fitto e non si vedeva da qui a lì, m’imbacuccai nel pastrano e sprofondai nella neve, feci alcuni metri avanzando a fatica e trovai la scia lasciata dai lupi, sembrava un sentiero aperto e non avendone altri a disposizione decisi di seguirlo, cammina cammina arrivai in un piccolo cimitero abbandonato, in quel punto le tracce dei lupi si disperdevano nella boscaglia ed il sentiero finiva.
Il cimitero era cintato da un muro di neve ed aveva la porta aperta, si intravvedeva appena, era più un sentore, un’intuizione che un vedere vero e proprio, nell’interno il buio era rotto da un fioco fuoco fatuo che sgorgava come una fontanella da una tomba nel centro, stranamente non c’era neve ma in quel momento non mi chiesi perché, il vento aveva smesso di fischiare ed il silenzio era senza nome, il fuoco fatuo scivolando tra le tombe mi venne vicino, avvampò per qualche secondo di luce vivida e fece cenno di seguirlo.
Può sembrare inverosimile comunque gli andai dietro, mi portò davanti a una piccola costruzione semidiroccata che sull’ingresso recava un’insegna nobiliare, la figura si poteva solo indovinare e si vedeva un cavaliere in armatura nell’atto di trafiggere un drago, il fuoco fatuo aprì la porta facendo scricchiolare i cardini per la ruggine dei secoli poi accennando un inchino mi invitò ad entrare.
Uccidi il padre.
L’interno di una piccola chiesetta abbandonata come c’è in ogni cimitero, nella penombra appena rischiarata dal fuoco fatuo sembrava di stare all’interno di un sogno, la pianta esagonale, non c’erano mobili a parte un altare di pietra posto contro la parete di fronte l’ingresso, aveva il soffitto a cupola ed ogni cosa era ricoperta da uno spesso strato di polvere.
Il fuoco fatuo aleggiava per l’aria tremolando la sua fiamma e disse con voce melliflua da servo abituato al comando: “Bentornato a casa sir, ti piace il posto?”
La domanda mi sorprese, come poteva piacere un posto simile? In quel momento pensai che forse ero morto e mi trovavo nell’anticamera dell’inferno oppure che stavo vivendo il ricordo di un’altra vita, il dubbio rodeva ma il fuoco lo prevenne dicendo: “Non badare alle apparenze, qui è sempre tutto da fare, un eterno inizio, si parte da zero e poi…”
“Poi poi!” esclamai spazientito, “Tu chi sei, come fai a bruciare se non c’è niente che brucia?”
La fiamma pulsò vivida qualche istante e rispose: “Quel che si vede…al momento può sembrare…mettiamola così, sono un’idea e prendo energia da un creatore.”
Un’idea, poteva essere, ci sono idee che covano per anni senza realizzarsi, stanno in un cantuccio in attesa e aspettano, cosa? vedevo girare castelli per aria ma non c’erano nomi e le forme volteggiavano mute, se solo mi fossi ricordato… “Che ci sto a fare qui?” gli chiesi.
L’idea si raccolse, allungò la lingua sinuosa e rispose: “Come non ricordi? Sei tornato in Irlanda a cercare un tesoro, avevi trovato la mappa incisa sull’ultimo piolo di una scala stregata ed eri arrivato al confine estremo del mondo, lì c’era il si diesis e la musica finiva per cominciarne un altra.”
Il ragionamento filava, l’embrione cresceva, a quel punto mi accorsi che la fiamma si rifletteva fiocamente sul muro sopra l’altare, mi avvicinai e vidi che la parete era coperta da un drappo, lo toccai e quello si staccò e cadde a terra sollevando un polverone impalpabile che svanì in un attimo, c’era uno specchio enorme, mi vidi riflesso alla luce del fuoco fatuo poi l’immagine iniziò a crescere, occupò tutto lo spazio ed apparve la faccia mostruosa di un drago, aveva le fauci cariche di denti acuminati, una folta criniera bianca e un altrettanto folto barbone blu, ansimava un fiato rovente che però non si sentiva perché stava al di là dello specchio, mi guardò con occhi malvagi e con voce burbera disse: “Un altro seccatore, se sei venuto a cercare il tesoro ti avverto, non me lo farò portare via facilmente, dovrai prima vedertela con me!”
Con prontezza di spirito ribattei: “Il tesoro non mi interessa però mi piacciono un sacco i draghi, era da tanto tempo che desideravo trovarne uno e tu sei proprio un bel mostro, mi piacerebbe tanto diventare tuo amico.”
Il drago mi guardò con sospetto, annusò l’aria nella mia direzione, rabbonì leggermente gli occhi e continuò: “Quello che hai detto…non so, puzza un po’ ma c’è del vero, noi draghi siamo ingiustamente odiati e tutti ci danno la caccia per i tesori che custodiamo ma non siamo cattivi… come vedi sono un vecchio dinosauro e tutti mi han sempre chiamato il Dinosauro blu per la barba ma tu puoi chiamarmi semplicemente Dino.”
L’avevo preso, ora dovevo condurlo e gli chiesi: “Che ci stai a fare lì, non ti annoi tutto solo?”
Lui scosse il testone rizzando leggermente i peli della criniera e rispose: “Noia noia, cos’è? qui c’è sempre da fare, non draghi siamo cantastorie e ci piace raccontarle, vuoi sentirne una?”
“Racconta!”
Il drago tossì per schiarirsi la gola ed iniziò: “C’era una volta un padre che aveva un figlio che era un birbante matricolato, quando morì gli lasciò in eredità un seme e gli disse: “Caro figlio, sto morendo e come sai non ho nient’altro da lasciarti che questo, tu seminalo e aspetta che cresca la pianta, quando sarà nell’età giusta farà un frutto, ricorda bene, un solo frutto, tu lo dovrai curare e quando sarà maturo lo coglierai e con quello risolverai ogni problema ma fa attenzione, dovrai coglierlo non il giorno prima non il giorno dopo ma proprio quel giorno altrimenti non ti servirà a nulla.”
Il drago terminò la frase sogghignando e rimase in silenzio. “Come andò a finire?” Gli domandai interessato.
Lui cambiò discorso e riprese a parlare con voce burbera ed occhi malvagi: “Questo non si sa… siamo seri, noi draghi siamo tutti un po’ enigmisti, se vuoi il tesoro dovrai rispondere ad un indovinello altrimenti ti mangerò vivo, nudo e crudo come sei.”
“Ti ho detto che il tesoro non mi interessa!”
“Non ti credo!” ribatté lui e continuò col tono di chi parla a un cretino: “Ti deve interessare per forza altrimenti come facciamo a continuare la storia?”
“Va bene allora mi interessa, fammi l’indovinello.”
Dino sputò una fiammata e nel contorno infocato, come in un fumetto, si lesse:
“Quel che credi non è,
quel che è non credi,
indovina indovinello, che cos’è?”