Ogni giorno è l'ultimo.
Cercavo una bella frase per iniziare un racconto e non mi veniva allora presi il flauto ed iniziai ad improvvisare.
Da tempo cercavo una strumento a fiato per le mie improvvisazioni solitarie ed il flauto mi stava bene, tempo addietro avevo sprecato due anni a studiare il sassofono, due anni di scale avanti ed indietro davanti al leggio e poi avevo dovuto piantare lì, adesso quella pratica mi veniva utile e facevo passi da gigante.
Il flauto dolce è uno strumento comodo, versatile, occupa poco spazio ed anche se non ha un estensione d’ottave come il sassofono permette di svagarsi con la musica che meglio non si potrebbe.
Iniziai con qualche noterella a caso, il suono uscì soffice e morbido, meglio del solito e mi divertivo a cincischiare con i suoni guardandoli svolazzare per la stanza disegnando nell’aria figure incantate che danzavano per me in uno sventolio di colori spumeggianti che sembrava di nuotare in una nuvola…
Tenevo chiusi gli occhi per guardare meglio, le dita scivolavano sui tasti per conto loro, tutto il corpo partecipava, onde di puro piacere scorrevano sulla pelle e si riversavano sospiro nel flauto per poi esplodere in un climax che correva verso la vetta, era una corsa di lupi selvaggi e ululavo, un volo di aquile e sfidavo la vertigine salendo sugli acuti facendoli stridere per precipitare in pacchiata verso un oceano di musica che alzava le onde venendomi incontro per accogliermi nel suo cuore…
Mestiere direbbe qualcuno, va be’, alle improvvisazioni ero abituato ma quella volta c’era qualcosa di strano nell’aria, il flauto era docile e realizzava ogni mia fantasia, lo sentivo… come dire… una parte di me, un prolungamento di qualcosa che stava realizzandosi però c’erano delle resistenze che mi impedivano di continuare.
Atterrai su un alto scoglio in mezzo all’oceano in tempesta, rimasi qualche secondo in silenzio e ricominciai, questa volta eravamo solo il mio corpo e lo strumento, il legno si era ammorbidito e stava scaldandosi tra le dita, chiusi gli occhi concentrandomi sul mantice del ventre, la lingua batteva i colpi sull’imboccatura che era diventata morbidissima, la sentivo come un’ altra lingua che rispondeva alla mia e si avvinghiava in un bacio arroventato, improvvisamente avvertì nella bocca l’inconfondibile sapore di una figa, stringevo il clitoride tra le labbra e lo succhiavo soffiando e quello gonfiava, diventava sempre più grande, nella ridda di suoni che ormai uscivano senza vergogna avvertivo anche questo inconfondibile il gusto del peccato e mi eccitava spronandomi verso le vette della musica immortale quando il clitoride si trasformò in un grosso cazzo duro e capii subito che si trattava del mio cazzo, proprio lui che per tanti anni avevo abbandonato in un sogno di rinuncia.
Avevo aperto le ali e la musica planava scivolando sul vento senza una meta precisa, lui sembrava timido ed impacciato, mi guardava di sottecchi ed era arrossito, cincischiavo sulle note basse ancora indeciso, le resistenze erano forti ma non le ascoltavo, iniziai a leccarlo leggermente sulla cappella e lui nicchiava ma si vedeva che gli piaceva e in contrappunto ai suoni si sentiva come un gatto che fa le fusa e poi sornione cominciò a rispondere spingendosi contro le bocca, lo lasciai entrare e mentre andava su e giù tra le labbra in tonalità che non avevo mai sentito prima lo slinguavo e succhiavo e mordevo, insomma ci mettevo tutta la mia arte e quello…
A questo punto Piero vide che la figura era tracciata e smise di scrivere, o di suonare, che differenza c’è?…